CESPOC
Centro Studi sulla Popular Culture

Con il contributo dell'Assessorato dei Beni
Culturali ed Ambientali e della Pubblica
Istruzione della Regione Siciliana

Dai Beati Paoli al Codice da Vinci: il mito del complotto nel feuilleton

La volontà di credere

imgA mano a mano che la realtà effettivamente si separa dalla finzione, la vera domanda diventa perché molti vogliano credere che la storia si spieghi con grandi complotti - dei Beati Paoli, del Priorato di Sion e magari degli alieni - piuttosto che con la dura fatica della quotidiana comprensione del presente. Perché molti, come l'agente speciale Fox Mulder della fortunata (e complottista) serie televisiva X-Files, sembrino avere come motto I want to believe, "Voglio credere".

Si tratta proprio di "volontà di credere"? L'agente Fox Mulder di X-Files, per la verità, basa la sua avventurosa carriera non su un solo motto, ma su due. Il primo è I want to believe. Il secondo è The truth is out there, "La verità è la fuori". A differenza di quanto avviene per eroi eterni come Batman o Topolino, che non cambiano mai la loro età (li vedremo al massimo, quando si vuole presentare "il loro passato", bambini, ma mai vecchi), nelle serie televisive spesso i protagonisti mutano e invecchiano di anno in anno, anche perché diversamente occorrerebbe cambiare gli attori. L'agente Mulder e la sua controparte femminile Dana Scully, nel corso di ben nove stagioni di X-Files, dal 1993 al 2002, non solo invecchiano (e, quando l'attrice Gillian Anderson è incinta, deve esserlo anche l'agente Scully che interpreta, perché la produzione non si arresti), ma cambiano anche molte loro idee. Dana diventa, da scettica e scientista, convinta adepta dell'I want to believe. Mulder di stagione in stagione si fa meno credulone ma rimane credente, convinto in particolare che un Grande Complotto leghi alieni presenti con diverse modalità segrete sulla Terra e loro alleati nel governo degli Stati Uniti. La serie si conclude lasciando agli spettatori l'impressione che Mulder non abbia del tutto torto (Kellner 2002): ma quello che è più interessante è come il clima, in una serie che è durata così a lungo come X-Files, sia molto cambiato negli anni rispetto agli esordi del 1993.

Nel 1993 "la verità è là fuori" nel senso che è a portata di mano: gli eroi di X-Files dovranno certamente, come in ogni storia di avventure che si rispetti, superare molti ostacoli e affrontare potenti nemici e indicibili sofferenze, ma lo spettatore ha l'impressione che alla fine il Bene potrebbe trionfare e la verità venire a galla. Dopo tutto, l'impero sovietico è da poco caduto, e il politologo Francis Fukuyama ci ha appena assicurato che "la storia è finita": c'è stata una Terza guerra mondiale - contro il comunismo - ma gli Stati Uniti la hanno vinta, e non ci saranno più guerre mondiali in futuro (Fukuyama 1992). Ma a poco a poco gli americani - e gli altri - scoprono che "là fuori" non c'è la fine della storia. Venuta meno la minaccia sovietica, riemergono nemici dimenticati, conflitti antichi, "scontri di civiltà" (Huntington 1996). Anche in X-Files, tanto più dopo l'11 settembre 2001, il mondo "là fuori" assomiglia sempre di più a quello di Huntington e sempre meno a quello di Fukuyama. Alla fine della serie, allo spettatore è detto con chiarezza che complotti malevoli continuano a dipanarsi nella storia e che, se i protagonisti sono almeno riusciti a non morire ammazzati, non c'è nessun happy end in vista per l'America e l'umanità.

Si potrebbe pensare che la saga di X-Files sia finita nel 2003 - oltre che per stanchezza, dopo nove stagioni - anche perché ormai il pubblico aveva altri complotti cui pensare: la vera cospirazione di Osama bin Laden faceva ben più paura di quella immaginaria degli alieni. Ma d'altro canto gli alieni, gli extraterrestri, hanno sempre avuto anche un ruolo di metafora. E il senso della metafora è cambiato: se all'inizio gli extraterrestri (pur non mancando eccezioni) erano più spesso personaggi benevoli e simpatici che venivano a mettere in guardia gli uomini contro l'egoismo e le guerre - un tema ancora preservato dai movimenti religiosi che si ispirano a messaggi trasmessi dai "fratelli dello spazio" (Rothstein 1999) - oggi sono sempre più spesso esseri ostili che vengono per conquistarci e dominarci. Del resto, già lo psicoanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) spiegava nel 1958 che l'attrazione dei nostri contemporanei verso i dischi volanti è un'espressione delle nostre paure profonde generate dalla bomba atomica e dalla guerra fredda, ma anche del desiderio corrispondente di essere "angeli tecnologici", la versione moderna del Deus ex machina (Jung 1958). Non ci vuole neppure troppa fantasia per vedere nell'alieno inteso come extraterrestre una metafora dell'alieno inteso come "straniero" assoluto, quell'ultra-fondamentalista islamico che è totalmente "estraneo" all'Occidente e ai suoi valori.

Fin qui si tratta di offerta di teorie complottiste della storia, talora romantiche, talora assurde e mistificanti. Ma l'offerta di beni simbolici non diventa fenomeno culturale diffuso se non quando incontra una domanda. Il quesito, allora, è perché l'offerta di teorie del complotto oggi sembra avere più successo di ieri. Dov'è la domanda? Da un primo punto di vista, la questione è posta male: in una certa misura, dopo la sua prima affermazione "di massa" in quello strano secolo di illuministi e illuminati che è il Settecento, il complottismo non ha mai smesso di abitare in Occidente. Se si scaccia la religione il puro razionalismo dei Lumi non è sufficiente a spiegare la storia, convincere le menti e scaldare i cuori. La domanda di sacro, negata dalla critica illuminista del cristianesimo, si sfoga nelle forme di un irrazionalismo magico, esoterico e - appunto - complottista.

Da un altro punto di vista, i numeri di Dan Brown rappresentano una novità. La letteratura complottista, anche nelle forme romanzate di successo de I Beati Paoli, aveva venduto al massimo centinaia di migliaia, mai decine di milioni di copie. La semplice diffusione della cultura di massa nel XXI secolo non è una spiegazione sufficiente, ed è necessario esplorare altre ipotesi. Nell'Occidente contemporaneo in genere la maggioranza delle persone (oltre l'ottanta per cento nell'Unione Europea, oltre il novanta per cento negli Stati Uniti) si dice ancora religiosa, anzi l'ateismo e l'agnosticismo sono in calo dopo il crollo delle ideologie che ne fondavano le giustificazioni teoriche (Stark e Introvigne 2003). Tuttavia, la maggioranza di queste persone "religiose" non è in contatto regolare con nessuna Chiesa o istituzione: né con le "vecchie" né con le "nuove religioni". Frequentano almeno mensilmente un luogo di culto circa il quaranta per cento degli americani e il venti per cento dei cittadini dell'Unione Europea (Davie 2002, 6, 28). La religione di maggioranza in Occidente non è più il cristianesimo: il fenomeno dominante diventa, secondo la fortunata formula della sociologa Grace Davie (1990, 1994), il believing without belonging, il "credere senza appartenere".

La stessa Davie, nelle sue Sarum Theological Lectures ("Conferenze teologiche Sarum") tenute nella cattedrale di Salisbury, in Inghilterra, nel corso dei mesi di aprile e maggio 2001, parlando da credente a credenti sembra in qualche modo lanciare - sia pure con la discrezione propria di un'impostazione che rimane sociologica - una sfida alla nuova maggioranza, in cui è difficile non cogliere anche una valenza morale. Chi "crede senza appartenere" non "appartiene" e non frequenta i luoghi di culto a causa di una forma di disimpegno, di un'ideologia della delega peraltro più diffusa in Europa che negli Stati Uniti. Si ha qui, incalza Grace Davie, un fenomeno di "religione vicaria", in cui più della metà degli europei vede le Chiese come "utili istituzioni sociali, di cui la grande maggioranza della popolazione avrà probabilmente bisogno in un'occasione o due durante la vita (non da ultimo, in occasione della morte)". Ma, per il resto della sua esistenza, "un numero significativo di europei si accontenta di lasciare che le Chiese e chi va in chiesa mantengano viva una memoria per loro conto (ed è questo il significato essenziale dell'aggettivo “vicario”)" (Davie 2002, 19; cfr. anche Davie 2000). Detto in termini più brutali, dal momento che "appartenere" costa, una maggioranza disimpegnata che "crede senza appartenere" delega a una minoranza impegnata il compito di "appartenere" e di andare in chiesa. Ma alla maggioranza rimane un certo senso di colpa.

Dan Brown, e chi lo ha preceduto nella catena complottista che arriva fino ai suoi romanzi, danno al vasto e ormai maggioritario mondo del believing without belonging sia qualche ragione per credere, sia molte ragioni per non appartenere. Brown rassicura i suoi lettori confermandoli nell'idea secondo cui credere che ci siano più cose in Cielo e in Terra - e nella storia - di quante sia capace di vederne un razionalismo ormai fuori moda è più che legittimo, ed è anche politicamente corretto. Ma soprattutto li tranquillizza, e toglie loro ogni senso di colpa quanto al "non appartenere": fanno bene a non essere praticanti, hanno ragione a non andare in chiesa. Non si tratta di pigrizia o disimpegno: le chiese non vanno frequentate perché la Chiesa è un'istituzione fondata storicamente sulla mistificazione, sulla violenza e sull'inganno. L'offerta di Brown incontra così una vasta domanda che viene dal mondo del believing without belonging. A un popolo per definizione senza dottrine, Brown offre un'ideologia: fate bene a credere, ma anche a non appartenere, perché la Chiesa è cattiva. Rispetto all'anticlericalismo ottocentesco in cui cade talora un Luigi Natoli, che evoca piuttosto il farmacista massone del paese in lotta contro il parroco, Brown risponde con ben altra malizia. Certo, non saranno questi untorelli a spiantare la Chiesa, che potrebbe rispondere, con Cicerone (106 a.C.-43 d.C.): Alios vidi ventos, alias prospexi animo procellas, "Ho visto ben altri venti, ho affrontato senza paura ben altre tempeste" (In L. Calpurnium Pisonem Oratio, 21). Ma la potenza della comunicazione di massa fa sì che questo microcomplotto letterario vada, a suo modo, preso sul serio.