Il CESPOC e la popular culture

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Guerre virtuali
di Massimo Introvigne (L’Indipendente, 10 febbraio 2006)

La sigla Mmorpg dirà poco a molti lettori, ma si tratta di uno dei più interessanti fenomeni sociali del nostro tempo. Ogni anno l’associazione americana Aipla convoca giuristi e sociologi a discutere di un fenomeno nuovo che modifica i diritti e la società. Quest’anno il congresso cui partecipo a La Quinta, in California, si occupa appunto degli impronunciabili Mmorpg. La sigla significa “giochi di ruolo via Internet con un numero estremamente grande di giocatori”. Si tratta di partite ispirate al mondo del fantasy, con combattimenti fra maghi, guerrieri e draghi, giocate via Internet e che ogni mese coinvolgono circa cento milioni di giocatori nel mondo. Chi desidera partecipare entra nel sito dove la partita è in corso, si abbona pagando un tanto al mese e procede a crearsi un “avatar”, una sua identità virtuale pronta e entrare in campo.

All’inizio l’avatar è molto debole e non può fare gran che. Dovrà a poco a poco collezionare armi o altri strumenti (pozioni, amuleti, e anche “proprietà immobiliari virtuali”, come castelli dove rifugiarsi) per migliorare le sue capacità. In genere nei Mmorpg si vende e si compra con moneta virtuale che si riceve al momento dell’iscrizione, o si acquistano strumenti sconfiggendo i mostri che li posseggono. Ma per diventare più in fretta un giocatore di serie A oggi molti vanno a comprare strumenti e proprietà su siti Internet che li vendono non in moneta virtuale ma reale, chiedendo un pagamento immediato con carta di credito. Le società che gestiscono le partite scoraggiano questa pratica, ma non riescono a impedirla. Gli organizzatori dei giochi incassano 5 miliardi di dollari all’anno, che diventeranno 10 nel 2009, anche se il campo è così denso di controversie che una buona fetta della torta va agli avvocati.

Chi vende strumenti e proprietà su siti indipendenti incassa altri 800 milioni di dollari all’anno. Per avere a disposizione strumenti da vendere deve riceverli da giocatori disposti a entrare nel gioco e consegnarli a chi ha pagato. In Cina esistono “fabbriche” dove per un modesto salario ci sono persone che “giocano” per 12 ore al giorno, accumulando strumenti che sono poi rivenduti tramite i siti indipendenti. Questo duro lavoro, che assomiglia ben poco a un gioco, occupa oltre centomila cinesi. Il mercato è destinato a crescere: quest’anno la Corea del Sud ha annunciato di essere il primo paese dove ogni sera le persone che si collegano a un computer e giocano a un Mmorpg superano quelle che guardano la televisione. Gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina si spartiscono oltre il novanta per cento di questo enorme mercato. L’Europa non guadagna ma spende: si moltiplicano i giocatori, mentre praticamente non ci sono gestori di giochi né venditori di strumenti. L’Europa, che sembra non capire che è qui il futuro dell’immensa industria del tempo libero, rischia di diventare vittima di un nuovo drenaggio delle sue risorse verso gli Stati Uniti e l’Estremo Oriente.

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